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Al 2° posto Stefania Del Frate di Palmanova con " Tempi lenti sul fiume " e al 3° Egidio Babuin di Majano con " A primavera ".


Questo il giudizio emesso, nei giorni scorsi, dalla commissione valutatrice del concorso indetto dall'Accademia Città di Udine, presieduta dalla Presidente Francesca Rodighiero.

La giuria, composta inoltre dal professor Gianfranco Scialino (Presidente) che ha rilasciato un'importante recensione, dalla professoressa Renata Capria D'Aronco, dallo scrittore Alberto Frappa e dal giornalista Mario Blasoni, segretario Bruno Domenico Ciancarella, ha esaminato più di centotrenta opere.

La premiazione anche quest'anno si è tenuta a Palazzo Belgrado della Provincia, presenti molti partecipanti al concorso, che hanno ricevuto premi vari, copie della pubblicazione dei testi e "Attestato di partecipazione" per tutti.


Al seguente link potrete trovare tutte le foto della cerimonia di premiazione
  

 

PRIMO CLASSIFICATO - sezione lingua italiana

"Ruggine"  di Muzzatti Silvana,

 

SECONDO CLASSIFICATO - sezione lingua italiana

"Tempi lenti sul fiume" di Del Frate Stefania

 

TERZO CLASSIFICATO - sezione lingua italiana

"A primavera" di Babuin Egidio

 

Segnalati:

Lazzerotti Bruno di Milano

Saliu Marjola di Artegna

Capecchi Loriana di Pistoia

Mattiussi Elisa di Pasian di Prato

Di Luca Rachele  di San Giorgio di Nogaro   

 


Nella sezione " Poesie in lingua friulana ( una ventina le composizioni pervenute ) 1° premio a Renato Cieòl di San Vito al Tagliamento can " Dèntri l'handicap ".

PRIMO CLASSIFICATO - sezione lingua friulana

"Dèntri l'handicap" di Cieòl Renato

 

Segnalati:

Di Stefano Emma da Brindisi

Candido Ezio da Rigolato

 

 

Nella sezione " Racconto breve in lingua italiana" (una trentina le composizioni ) Vincitore : Giovanni Bottaro di Pisa con " Inter peritura vivimus ".

 

PRIMO CLASSIFICATO - sezione racconti

"Inter peritura vivimus" di Bottaro Giovanni di Pisa

 

Segnalati:

Ciancarella Livio con "Figlio del tempo nostro"

Monti Gino  con "Un imperdonabile errore"

Calligaris Adelina con "Immagini".

 

Quest'anno sono stati molti i giovani tra i sei e i diciassette anni che hanno partecipato, grazie anche alla collaborazione delle scuole. 
 

PRIMO CLASSIFICATO - sezione giovani

"Perchè è finto Marzo?" di Maria Zoe Dalla Costa

 

Segnalati:

Gaudino Sofia   con "Della scuola non ne posso più"

Mattiussi Maria Teresa  con "La stella nella scatolina di vetro"

 

 

Nella sezione "lingua straniera ", vincitore Ferdinando Pulella, studente con "The perfidious witch ". 

 

PRIMO CLASSIFICATO - sezione lingua straniera

"The perfidious witch" di Pulella Ferdinando 

  

Segnalati:

Marson Beatrice di Pavia di Udine

Gomez Rivas Aly  di El Salvador

 

Gli autori, con la partecipazione al premio, autorizzano l’“Accademia Città di Udine” alla pubblicazione della loro opera, rinunciando ai diritti d’autore.

 


 


RUGGINE di Silvana Muzzati

Ruggine, che fai tu, struggente
bacio, su carcasse ferrose deposto?
Su binari abbandonati da viaggiatori
verso l'altrove indirizzati?
Su chiodi e viti non più usi
a unire e sigillare e costruire?
Perché tu, ruggine, l'ingranaggio
inceppi? La costanza scardini?
Malinconica ruggine, perché,
di continuo, a noi rammenti
dell'età l'inconsistenza
e dei tempi tutti l’evanescenza?

Su questi tetti africani
dove nulla si rifiuta
e tutto si accantona,
nelle strade polverose,
o ruggine,
è la tua apoteosi.
A te sospesa, sottile
speranza di abbondanza sta.

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TEMPI LENTI SUL FIUME di Stefania Del Frate


Ho visto due amici a pesca,
me li ha raccontati Gianni.

Stavano sull'isolotto, sul fiume
l'acqua un po' passava liscia
quel giusto per andare.

La sera si preparava serena
nubi blu a segnare l'orizzonte
il resto quasi rosa.

Calmo stava l'ormeggio sulla sponda
stese le canne, aperti i treppiedi:
i due pescavano.

Di qua, portata dal vento, sì e no,
si sentiva appena una mezza frase
o forse una risata.

Ah ... Gianni,
che gola di uova sode a morsi
e quattro patate bollite.

.

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  A PRIMAVERA di Egidio Babuin


Vestiti, usciamo,
mi piace quello che ti metti
una gonna blu a fiori bianchi
come petali di melo,
appena sopra le ginocchia
e stretta in vita.
Sui capelli un velo,
la camicetta fresca di bucato
che respira sul tuo seno.
Nella mia stringo la tua mano,
ti cingo i fianchi,
camminare a te vicino
mi fa sentire bene,
leggero come il vento
che increspa l’erba
dove poggi i piedi nudi.
Ti lascio libera d’andare
sul mare verde
e sogno ad occhi aperti
che siano farfalle innamorate
a spogliarti.
Quando torni
hai sulla bocca un fiore
e le labbra mi cercano
fresche di rugiada,
vibrano,
mosse da un leggero tremore.

 

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 Dèntri l’handicap (Children of a lesser god *) di Renato Cieol

….a còrin sìcu magnacòpis
a sàltin sinc…sintìmetros
a zòin lu zlòu-fùtbal
a rìdin… a plànzin
a pènsin… a scrìvin…
…a scrìvin cun lâpis ‘tal ciàf o ‘taj dèic’ daj piè
a vòlin ben… a si vòlin ben…
a giòldin dal sorèli e da li’ stèlis
a gòdin da la lùna nòva
a giòldin daj colòurs sunòurs savòurs dal mont.
…! a no àn pòura da la not!...
a ghi vòlin ben aj tùrcs
lizèirs livòtars da li’ fàdis
cha sclènzin j’ ciànps zgrizulàts
cu li’lou’s sizeàdis di randàjis
…in cùntra-scòntru a musàts
Grandonòns
che a s’ciàps a vègnin jù sìcu stùcas
scuàzin’ ognidì
‘taj lòu’s cuàrps
‘ta li’ lòur ànimis.

‘Na zghirlànda di lus batièa j’ lòu’s vùj
leàts e obleàts
at un diàu’ blanc
e
at un dìu nèri
ch’a san zbregà sconbàti e conbàti
par no sfantulà j’ zgnarfs a la mimòria
…a la lou’ mimoria

 

* Titolo tratto dalla pellicola cinematografica del 1986 “Figli di un Dio minore”

 

Traduzione

Dentro l’handicap


…corrono come tartarughe
saltano cinque…centimetri
giocano allo slow-football
ridono…piangono
pensano…scrivono…
….scrivono con una matita sulla testa e fra le dita dei piedi
vogliono bene…si vogliono bene…
godono del novilunio
godono dei colori rumori sapori del mondo.
…!non temono la notte!...
Piacciono le libellule
leggeri elicotteri delle fate
che legano i campi screziati
con i loro delicati voli
…di contro a zanzare
gigantesche
che a sciami arrivano come stukas
ogni giorno
nei loro corpi
nelle loro anime.

Un urbinio di luci battezza i loro occhi
legati e obbligati
da un diavolo bianco
e
da un dio nero
che sanno stracciare e (s)combattere
perché non vengano meno i nervi della memoria
…la loro memoria

 

 

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INTER PERITURA VIVIMUS di Giovanni Bottaro


Virgilio ammiccava, elemosinando un passaggio. Il pugno stretto – e l’indice (estrema propaggine del suo arto teso) – additavano una direzione qualsiasi, che il suo disorientato animo gli suggeriva di prendere. Il suo braccio (prima che gli arrivassi vicino) s’era abbassato – ed alzato – almeno due o tre volte: ma tutti correvano (come tra pericoli) pieni d’affanni.
Il viale (costeggiato da platani secchi, altri steccuti-malati, altri ancora con i tronchi scortecciati) diceva di un incipiente autunno, se le foglie picchiettate verde-marrone scartocciavano nella brezza – rincorrendosi – in un gioco a nascondino che solo germogli – come fanciulli dalle gambe agili – possono immaginare, se sorretti da rami giovani, su altalene, le cui corde siano vigorosi piccioli elastici. Su un tiglio – quale inascoltato monito – posticci mazzi di fiori finti, segno recente di precarietà e di morte in agonie rotanti di pneumatici.
Chissà come Virgilio era approdato in viale D’Annunzio dove, se non si giunge a Marina di Pisa, è impossibile trovare una panetteria, in cui acquistare – come Virgilio si era proposto di fare lasciando la figlia – la solita diavola (“Non molto cotta e senza troppa crosta, per via dei denti”, precisò Virgilio) da consumare durante i rituali pasti del giorno.
Tra i molti dimenticati percorsi degli uomini, quello compiuto da Virgilio – dalla sua casa a quel viale trafficato – resterà un enigma irrisolto. La memoria a breve termine di Virgilio aveva cancellato i suoi passi recenti, come movimenti involontari, sicché noi tutti non ricordiamo il numero dei nostri respiri; oppure le innumerevoli contrazioni del nostro muscolo cardiaco, a patto che non siano accelerati, o rattenuti, da un evento che investa le fibre più profonde del nostro Essere.

D’istinto mi accostai al ciglio della strada.

Virgilio parve tirare un sospiro di sollievo, i suoi occhi rasserenarsi, quando si affacciò – un ritratto sbiadito – alla cornice della portiera della mia automobile, quasi il suo possibile disagio interiore fosse svanito al breve stridore dei freni.
“Portami a casa”, mi disse Virgilio, spaesato, come se il viale in cui lo raccoglievo gli fosse del tutto sconosciuto, completamente estraneo (eppure chissà quante volte Virgilio lo aveva seguito), in un mondo senza un campanile; una casa; oppure un fiume: l’Arno scorreva accanto a noi indifferente, piatto e passivo, e senza un ricciolo di schiuma, a indicare la direzione della corrente.
Virgilio mi si accovacciò accanto, docile, sul sedile da cui tolsi un libro aperto, senza curarsi della cintura di sicurezza. Dovetti invitarlo ad imprigionarsi tra lo schienale e la striscia di tessuto nero, indicandogli il meccanismo a scatto, in cui lo aiutai a fissare l’estremità di quello stretto lembo di stoffa.
E l’uomo che – in lontananza – ritenni sicuro di sé e che soltanto un frangente sfortunato avesse portato a chiedere un piccolo favore, ora mi dava l’impressione di essere indifeso, spaurito, balbettante, di fronte alla vita. Siamo – distanti – l’uno dall’altro: ma il sentiero è stretto e non esiste possibilità di evitarci, vagando in vicoli angusti. E il destino – sotto lo stesso Cielo – concede poche speranze, se non un sicuro (anche se non conosciamo dove ubicato) giaciglio di terra.
I capelli bianchi di Virgilio, scia argentea sulla fronte altissima, gli occhiali – con lenti nemmeno troppo spesse – un fisico asciutto, la camicia azzurra ed i calzoni in piega, trattenuti da una cintola di cuoio nero chiusa da una fibbia dorata, una giacca leggera, le scarpe incredibilmente lucide, lasciavano presagire un pensionato agiato, lontano dalla sua scrivania lasciata da poco.
“Portami a casa”, ripeté Virgilio.
La casa di Virgilio non aveva indirizzo, né un tetto e neppure un comignolo, che liberasse un vapore azzurrognolo, a rivelare all’interno un’umana presenza. Labile nel suo ricordo, quella casa aveva tra gli alari del focolare cenere fredda e un – oramai – abbrustolito ciocco. Le finestre erano spalancate. E un vento instancabile aveva rovistato tra le suppellettili, i mobili, cancellando appunti sulle pareti e fatto volare pagine dense di calendari, mescolato (e trasportato) sulle ali degli angeli, o sulla alta incostanza dei cirri (confondendole), le memorie del tempo andato. Così le case di Virgilio si erano ammonticchiate: l’una valeva l’altra. Dell’ultima – la quale Virgilio mi chiedeva di raggiungere – Virgilio stesso aveva perso la mappa. Sì, c’era un’ultima casa, nascosta in una stanza buia del suo cervello, quella lasciata da un’ora (due, o tre: i passi dell’uomo svaniscono, non si ripetono, non sono mai gli stessi) per andare a prendere il pane: la casa più recente, e, disgraziatamente, la meno radicata nella memoria di Virgilio. La casa accanto a quella della figlia, nella quale Virgilio abitava, dopo la morte della moglie.
“Io abito vicino al Caligi”, argomentò Virgilio. “Portami lì, c’è un casello, un passaggio a livello con un solo binario, ci passano i treni, non molti, ma qualcuno ci passa, al mattino, specialmente.”
Ed io resuscitai il Caligi, che rammentavo essere un canale pressoché asciutto: agli argini qualche manipolo secco di canne. Il Caligi, in effetti, interseca la linea ferroviaria che da Pisa mena a Collesalvetti. Virgilio aveva ragione. Virgilio parve rassicurato della mia conoscenza della zona, certo che – insieme – avremmo trovato la sua abitazione. “Portami lì. È lì dove io vivo.” A Virgilio scivolò, tra le labbra, uno speranzoso sorriso.

Passò evanescente davanti ai miei occhi, il viso di mia madre, raggomitolata sul suo materasso d’acqua, sul letto dalle sponde di tubo cromato alte, immersa nelle immagini della sua giovinezza: Virgilio vagava, le gambe lo sorreggevano ancora nella sua passeggiata con la mèta perduta nei crocicchi di strade, di sassose viuzze, di polverosi sentieri ammatassati nella sequela dei suoi molti giorni. Mia madre – immobile – poteva solo (innocuamente) ricordare, ripercorrendo, con la sua mente senza briglie, un cammino attorcigliato, sovrapponendo, in disordine, un evento ad un altro, accaduto chissà quando.

Virgilio (durante il nostro tragitto verso la sua casa presso la ferrovia) non mi lesinava ringraziamenti. Mi assicurava molte ricompense per il mio disturbo, mentre in me sentivo salire un senso di impotenza, unito ad un’infinita tristezza. Mi vedevo carico d’anni! Speravo che da quelle parti qualcuno conoscesse Virgilio, dandomi indicazioni sulla sua dimora presente.
“Ho i soldi. Dimmi quant’è il tuo disturbo!”, mi sussurrava ossessivamente Virgilio. E mi mostrava il suo vuoto portafoglio, dal quale cercai invano di scorgere la presenza di un qualsiasi documento. Virgilio mi presentò anche il suo portamonete, con i pochi spiccioli, destinati all’acquisto della diavola poco cotta. Ogni tanto, inoltrandoci in paraggi che gli sollecitavano fatti avvenuti nel suo remoto passato – e senza minimamente curarsi della cronologia degli avvenimenti – Virgilio mi faceva notare come le siepi fossero dannatamente cresciute, come alcuni filari di viti fossero stati abbandonati, come alcuni rami d’albero ostacolassero il passaggio sulla carreggiata e come dunque sarebbe stato necessario il suo prezioso intervento per rimettere le cose a posto, nella campagna che, a suo dire, non era sufficientemente curata.
“Qui si faceva il grano, e che grano, e quella era una stalla piena di mucche e grassi vitelli”, mi disse indicandomi un campo incolto ed un caseggiato in rovina, quando mi fermai vicino alla cancellata del suo casello. Virgilio parve dubitare, perdendo la primitiva certezza, che quella fosse davvero la sua abitazione.
“Non c’è più la fontana di ferro! Perché l’uva acerba, quella pergola con le sedie e il tavolo? Non c’è tutto questo a casa mia!”
Scesero le sbarre, cigolando. Virgilio parve allertarsi – il suo sguardo si intorbidì impercettibilmente – come se un evento consueto lo riguardasse e gli desse responsabilità specifiche. Forse il passaggio del treno del mattino, con il saluto di uno sconosciuto viaggiatore solitario, lo riportava al tempo trascorso in quel casello, dove seppi che Virgilio aveva effettivamente prestato servizio, una cinquantina di anni addietro.
Mi venne incontro una signora con un crocchio di capelli-argento. Le chiesi se conoscesse Virgilio, se l’avesse mai visto nei dintorni. La signora scosse la testa. Anziana anch’ella, commentò che una fontana di ghisa era stata di recente rimossa per mancanza d’acqua e la pergola era stata un’idea del figlio. Anche l’acre assenza del fumo della locomotiva a vapore parve sconcertare Virgilio, il quale riprese a chiedermi di condurlo a casa, all’alzarsi delle sbarre a strisce bianche e rosse del passaggio a livello.
“Ecco, ecco. Ho dei parenti, mia cognata, mio fratello in Sant’Ermete, in via Immaginetta. Ecco… sì, portami lì, lì c’è la mia casa”, mi disse Virgilio, come deluso dal primo tentativo andato a vuoto.

E rividi mia madre, oltre il parabrezza della mia autovettura, con la testa poggiata sul cuscino, i capelli radi e lisci sulla federa, le pupille verdi perennemente piantate sul soffitto, un cielo bianco, senza strisce-seta di aerei, o lattee pennellate di nuvole. E – nella notte – un Cielo senza Stella Polare ad indicare un porto, velato di nebbie.

Virgilio s’infiammò scorgendo l’edicola della Madonna che delimita via Immaginetta.
“Quelle du’ donne che sistemano i fiori sono amiche della mi’ moglie. La mia casa è più sotto”, mi disse soddisfatto Virgilio. “Più avanti, più avanti! Ecco siamo arrivati!”
Era ormai in dissolvenza la via Immaginetta di Virgilio, scolorata dalle piogge, coperta dalla sabbia di clessidre voltate e rivoltate, trasformata nei colori dei balconi, tra i detriti sconsolati del ricordo. La scomposta fotografia di via Immaginetta (che Virgilio portava con sé) aveva colori uniformi e volti di donne – e di uomini – che erano divenuti cere informi, profili indefiniti, sotto la volubilità del sole. Non mi sentivo di deludere Virgilio, chiedendo un aiuto ufficiale. Non volevo in alcun modo traumatizzarlo, chiedendo l’opera del 113 o del 118. E correva il pensiero alla mia dabbenaggine e mi domandavo, senza potermi rispondere, perché avessi accolto sulla mia auto quella persona estranea.

Mia madre si presentava – immateriale – a consolarmi, come celata nella voce di Virgilio. Sentivo diceva, con il suo emiliano intercalare: “Zvanì, va’ avanti, tendigli la mano che ti chiede. Potrei essere io la persona che ti siede accanto. Ammetti che io potessi muovermi e nel mio andare insicuro avessi perso l’orientamento. Che cosa avrei potuto fare senza un aiuto? Un qualsiasi aiuto?”

Tentai di intavolare con Virgilio una conversazione qualunque, portando argomenti che riguardassero la sua non brevissima esistenza. Virgilio mi disse che aveva ottantuno anni. Egli stette, pacatamente, al gioco del ricordo.

Vicini al Nulla – di ritorno da dove venimmo – è un recitare continuo di monologhi antichi, per sentirsi ancora vivi, presso il silenzio consolante-spigoloso dei tumuli.

E Virgilio correva – inesausto – dal termine della sua attività come casellante, e come operario delle ferrovie, alla nascita affrettata dei figli.
“Per loro ho lavorato tanto… avevamo poco o nulla… mi sono sposato troppo presto… ma lo rifarei… erano altri tempi ed eravamo poveri… ci siamo tanto aiutati io e Luisella…”, mormorava, portandomi (con disincanto) sino al tempo dei banchi di scuola, voglioso di rivivere – correndo a ritroso – la sua vita, come per rinascere dal grembo materno.
“I miei genitori se ne sono andati quand’ero ancora giovane… ma non li ho dimenticati…”, continuava pensosamente.
Virgilio ri-prendeva dalla tasca il suo portafoglio, ri-armeggiava col suo porta-monete, promettendomi ancora – educatamente – ogni ricompensa per il mio disturbo. Scorreva l’asfalto che si dirama, come una forcella, a sinistra in un cortile, interrompendosi poi d’improvviso, chiuso da un alto muro di cinta. A destra, la carreggiata vola a raggiungere il cavalcavia, valicando così un’arteria di grande traffico, su cui i mezzi sfilano veloci, con un fruscio di serpe, che si annulla, le ruote allontanandosi.
“Sembra quella camionabile che passa accanto a casa mia, in via Sant’Agostino”, borbottò Virgilio, saltando brusco di palo in frasca.
Fugace, come un baleno che squarci un animo assorto, ebbi la sensazione che qualcuno fosse in pena e che stesse – trepidante – attendendo Virgilio, sulla soglia di una porta: Virgilio, col solito sgualcito sacchetto di carta grigia sotto il braccio, contenente la diavola poco cotta. E via Sant’Agostino, come un sofferente fiumiciattolo, è vicina all’Aeroporto. Non si scorge nemmeno tanto è ingombra di macchine. Il largo nastro catramoso, lo stesso che io e Virgilio avevamo appena visto (e che non dorme mai, nemmeno di notte, sorretto da piloni di cemento), la sovrasta, quasi soffocandola con il suo rigido cappio. Dunque via Sant’Agostino era la strada in cui abitava Virgilio. Mi mancava ancora il numero civico ed il mio compito si sarebbe esaurito felicemente. Ma Virgilio non pronunciava il suo cognome.
“Mi chiamo Virgilio… Virgilio e basta”, ripeteva ostinatamente.
“Virgilio, lei ha un telefono?” gli chiesi, quasi implorandolo.
“Certo! Ce l’hanno tutti il telefono al giorno d’oggi. Ho anche la macchina, la patente”, aggiunse con sicurezza.
Passò una camionetta militare, al di là della staccionata dell’Aeroporto. Virgilio sembrò osservarla distratto.
“L’aviere scelto Sarri è sempre agli ordini e sempre pronto”, soggiunse scherzando. “Sì, ero aviere scelto. Tempi duri; ma quando si è giovani!”
“Sarri… Sarri”, mi dissi, annotando il suo cognome, indelebilmente.
“Sì, mi chiamo Sarri. Ma non te l’ho già detto?”
Sarri Alberto, Sarri Carlo, … Sarri Virgilio. via Sant’Agostino, .. Tel. 050 87…
“Pronto, casa Sarri? Conoscete un signore che si chiama Virgilio?”
“Sì! Sono sua figlia. E lei è con mio padre, vero? Sono qui che lo sto aspettando!”
Come sollevato da un giogo, raggiunsi l’abitazione di Virgilio. Sua figlia ci attendeva sul cancello. Virgilio, mentre raggiungevamo via Sant’Agostino, riconobbe piazza Giusti, l’incrocio a “T”, regolato dal semaforo (Di là, si va al Convento dei Cappuccini…”, affermò gioiosamente Virgilio) ed infine il panificio, in cui era già incartata la quotidiana diavola.
Scoccava il mezzogiorno, quando Virgilio mi presentò al suo cagnolino che lo accolse saltandogli addosso, scodinzolando ed abbaiando. Della sua avventura, Virgilio sembrava non preoccuparsi, non la commentava nemmeno, tutto preso dai preparativi per il pranzo. Mi invitò a cena per la sera stessa e trasse più di una volta il vuoto portafoglio, onde ricompensarmi per il passaggio, neanche necessario, dato che la sua panetteria era a due passi.
“Grazie, comunque”, mi disse.
“Non devo lasciarlo più solo”, sentenziò amaramente la figlia, mentre, saltando svelta sul motorino, si recava al turno di lavoro del pomeriggio. Con lo strombazzare del suo mezzo, udii un frettoloso: “Sono già in ritardo!”

Sulla trasparente pelle di mia madre, un finissimo tessuto spiegazzato, vidi quella sera scorrere un timido cenno di saluto. E, per un attimo, le sue pupille abbandonare un bianco cielo vuoto.

 

 

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PERCHE’ E’ FINITO MARZO?  di MARIA ZOE DALLA COSTA


Perché è finito marzo,
il mio mese preferito
perché c’è il mio compleanno,
inizia la primavera,
si va a scuola in maniche corte,
ci sono tanti fiori colorati
e io e mia sorella
possiamo fare le collanine
con le margherite e le pratoline?

Perché è finito marzo, mi chiedo io?

Mia nonna mi ha detto che è finito
perché “ La vita deve andare avanti”.

 


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THE PERFIDIOUS WITCH di Ferdinando Pulella

 

There lived a family by the south sea shore
Tic toc ! Say this if you don't want to be a frog
There was a mother a father and two sons
Or for all your life, you will say grog

The family members got along with each other
Tic toc ! Say this if you don't want to be a frog
The mother with the father and the brother with the brother
Or for all your life, you will say grog

But one day a witch arrived
Tic toc ! Say this if you don't want to be a frog
Her name was Stitch Olive
Or for all your life, you will say grog

She was ugly and fat
Tic toc ! Say this if you don't want to be a frog
And she had a striped hat
Or for all your life, you will say grog

She cast a spell onto the small son
Tic toc ! Say this if you don't want to be a frog
So that, he became a frog
Or for all your life, you will say grog

The only way to undo the spell
Tic toc ! Say this if you don't want to be a frog
It was to tell a magic phrase
Or for all your life, you will say grog

 

Traduzione

LA PERFIDA STREGA

Viveva una famiglia sulla sponda sud del mare
Tic, Toc ! Pronuncia questo se non vuoi essere una rana
C'erano una madre, un padre e due figli
O per tutta la tua vita farai grog

Andavano d'accordo tra di loro
Tic, Toc ! Pronuncia questo se non vuoi essere una rana
La mamma con il papà e il fratello con il fratello
O per tutta la tua vita farai grog

Ma un giorno arrivò una strega
Tic, Toc ! Pronuncia questo se non vuoi essere una rana
Il suo nome era Stitch Olivia
O per tutta la tua vita farai grog

Era brutta e grassa
Tic, Toc ! Pronuncia questo se non vuoi essere una rana
E aveva un cappello a righe
O per tutta la tua vita farai grog

Lei lanciò un incantesimo al figlio minore
Tic, Toc ! Pronuncia questo se non vuoi essere una rana
E lui si trasformò in una rana
O per tutta la tua vita farai grog

L'unica soluzione per annullare l'incantesimo
Tic, Toc ! Pronuncia questo se non vuoi essere una rana
Era quella di pronunciare la frase magica
O per tutta la tua vita farai grog

 


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Varcata la soglia al numero 58 di via Anton Lazzaro Moro ci si ritrova in uno spazio magico di arte e di viva umanità: alle pareti i quadri di Francesca Rodighiero danno il benvenuto, disponendo l’animo a un viaggio leggero tra forme e colori. Nell’atelier si respira un’aria di accoglienza cordiale, fin affettuosa, dove perdurano gli echi dei concerti, delle letture, delle tante conferenze aperte al dialogo, delle innumerevoli presentazioni di libri ripetuti stagione dopo stagione a testimonianza di una vivacità culturale cittadina, democratica e condivisa.
L’Accademia città di Udine dimostra che la generosità e la dedizione indirizzate a un compito di progresso umano producono frutti impensabili per importanza e persistenza. A muovere ogni iniziativa non ci sono risorse economiche o finanziamenti di varia natura o provenienza, ma solo una energia che si chiama entusiasmo, unita al giusto convincimento di rispondere in tal modo alle attese di tante persone che sentono la necessità di rinfrancarsi nel contatto con l’invenzione poetica e di motivarsi attraverso la riflessione sui problemi e sui modi della convivenza civile.
In questa strategia un posto di rilievo occupa il Premio Internazionale di Poesia Giulietta e Romeo “di Savorgnan di Brazzà”, giunto alla quattordicesima edizione. Il concorso offre una pluralità di stimoli con le sue cinque sezioni: poesia in italiano, in friulano, racconti brevi, componimenti di bambini e ragazzi e infine testi redatti in una lingua straniera. L’intento del progetto è di mantenere vivo l’interesse per la dimensione letteraria della comunicazione, stimolando le risorse di creatività che ognuno porta con sé, alimentate dal desiderio di autoconoscenza e di conoscenza del mondo attraverso la parola.
Il Premio nel suo logo evoca una relazione amorosa, nei secoli affabulata in leggenda e negli ultimi decenni ripresa con qualche blando supporto documentario, che sarebbe intercorsa in Friuli agli inizi del Cinquecento tra Lucina di Savorgnan e Luigi Da Porto, uomo d’armi e scrittore vicentino.
Ad essa forse alludono alcune frasi presenti in Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti, opera che assicurò fama duratura all’autore, infatti la vicenda di Romeo e Giulietta da lui narrata, ripresa da Matteo Bandello, venne poi resa universale dal genio teatrale di Shakespeare. Luigi Da Porto inviò la sua novella a Madonna Lucina “per lo stretto vincolo di consanguinitade e dolce amistà” che li legava. La vicenda sviluppa il tema dell’amore impossibile, impedito da interessi e convenzioni sociali, fatalmente avversato dal caso che si fa destino, radice antichissima, anzi ancestrale ispiratore di tanta letteratura d’ogni epoca. Il Da Porto dunque offrì materia e intreccio a Shakespeare che avrebbe reso immortali i giovani amanti collocandoli nel cielo splendente della più compiuta poesia.
Rifacendosi a personaggi archetipici delle passioni umane e assumendo come plausibili gli affioramenti biografici di collocazione udinese della novella in questione, il Premio di Poesia dell’Accademia Città di Udine ha tracciato nel suo biglietto da visita i nomi di Romeo e Giulietta, di Luigi e Lucina, disposti all’interno di un cuore, icona di trasparente e universale significato.
Nella presente tornata del concorso la giuria, costituita da Mario Blasoni, Renata Capria D’Aronco, Alberto Frappa e Gianfranco Scialino, è stata supportata da Bruno Domenico Ciancarella, segretario impareggiabile per accuratezza, precisione, solerzia e totale disponibilità. Ciò ha reso il lavoro di selezione spedito e sereno. Veniamo dunque alle risultanze del concorso.
Il primo premio per la lirica in italiano viene assegnato a Ruggine di Silvana Muzzatti: la ruggine che corrode e degrada il ferro, sorda lima che lo sbriciola, suscita gli scenari della sterminata massa di rifiuti che l’età della tecnologia massiccia dissemina per ogni dove, ma è anche metafora del decadere di ogni manufatto, così come del perenne consumarsi delle cose e della vita. Nella seconda strofa della lirica la riflessione, articolata per immagini, porta in primo piano la condizione del continente della miseria, ovvero dell’Africa, smisurato ricettacolo di scarti e diffuso campo di aride speranze per la maggioranza dell’umanità che vi abita. Il fascio dei motivi storici, esistenziali e morali affrontati è organicamente disposto in un linguaggio asciutto, talvolta intenzionalmente prosastico e pensoso: “Su questi tetti africani/ dove nulla si rifiuta/ e tutto si accantona,/ nelle strade polverose,/ o ruggine,/ è la tua apoteosi./ A te sospesa, sottile/ speranza sta.”
Il secondo riconoscimento va a Stefania Del Frate con Tempi lenti sul fiume: un paesaggio, visto attraverso un racconto ascoltato tra abbandono e sogno, in lontananza scorre con le sue sequenze che ospitano silenziose presenze umane dai gesti rallentati, non più pescatori, ma parvenze assorte in attesa di una qualche imminente rivelazione; il fiume e il vento parlano sottovoce, una risata riscuote e riporta alla concretezza del presente: “Ah… Gianni,/ che gola di uova sode a morsi/ e quattro patate bollite.”
Il premio per la lirica in friulano è stato conferito a Renato Cieol con Dèntri l’handicap – Children of a lesser god: il testo, coraggiosamente acceso da una esigenza di verità, da slancio fraterno, da una pietas che è anche disappunto e ribellione, racconta i drammi della diversità; lo fa modellando efficacemente una variante di friulano aspra e assieme dolce che coinvolge, turba e conduce a una pensosa catarsi: “ ’Na ghirlanda di lus batièa j’ lòu’s vuj/ leàts e obleàts/ at un diàu blanc/ e at un diu neri/ ch’a san sbregà scombati e combati/ par no sfantulà j’ gnarfs a la mimoria/ … a la lou’ mimoria./ Children of a lesser god?”
Nella prosa la scelta si è fermata su Inter peritura vivimus di Giovanni Bottaro: un anziano colpito da amnesia si è perso e non ritrova più la via di casa; l’io narrante lo incrocia e si ferma a dargli aiuto; ne segue un labirintico itinerario suggerito dall’uomo smarrito sull’onda di brandelli di ricordi che provengono da un passato tarmato e perduto; il soccorritore è preso entro una trama incerta e intermittente di frasi, mentre alla sua mente si affaccia il volto della madre a rinnovare un passato doloroso annidato in pieghe dove esso resiste e si impone. La missione di salvataggio ha buon esito, ma la efficacia del racconto sta nel suo procedere su più piani: quello del contingente fenomenico e quelli di due forme della memoria, una vivida ma frammentata e incongruente, l’altra oscillante ma lucida, sofferta e consapevole. L’ordito su cui tutto poggia è dato da una crescente percezione della precarietà e fragilità delle esistenze, medicabile forse solo da gesti soccorrevoli o da una lucida pietà.
Nella categoria ragazzi vince Maria Zoe Dalla Costa con Perché è finito marzo?: i versi, in maniera garbata e trasparente, chiedono perché tutto scorra via, perché sia finito marzo, il mese dell’infantile compleanno. La risposta è saggia nella sua pedagogica ovvietà: “Mia nonna mi ha detto che è finito/ perché la vita deve andare avanti.”
Per un testo in lingua straniera la giuria ha scelto The perfidious witch di Ferdinando Pulella: con spiccato senso ritmico, accentuato dal rincorrersi delle onomatopee e in buon inglese si reinventano lo spirito e gli umori delle ballate popolari anglosassoni tra scorci di quotidianità e magico nonsense.
Esaurite le classifiche, è d’obbligo ribadire il ringraziamento a Francesca Rodighiero e a Bruno Domenico Ciancarella, infaticabili animatori del Premio. Il ringraziamento più forte tuttavia si indirizza soprattutto ai numerosissimi partecipanti al certame senza i quali ogni buona intenzione organizzativa risulterebbe vana: sono loro la vera linfa di questo appuntamento annuale con la scrittura poetica e creativa.
Augurando a tutti una buona lettura dei testi inviati a concorso, secondo tradizione raccolti nel presente volume, assai apprezzato e ricercato, mi sia permesso di chiudere con alcune citazioni che stanno perfettamente in argomento, ricorrendo ai classici. La prima è da Ugo Foscolo: “Gli intesi dire che la vera tribolazione degli autori veniva, a chi dalla troppa economia della penuria, e a chi dallo scialacquo dell’abbondanza; e ch’esso aveva la beatitudine di potere scrivere trenta fogli allegramente di pianta; e la maledizione di volerli poi ridurre in tre soli, come a ogni modo, e con infinito sudore, faceva sempre.” (Notizia intorno a Didimo Chierico). Una riflessione particolarmente acuta e illuminante ci viene da Giacomo Leopardi: “È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura il bello, e la filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più contraria al bello, sieno le facoltà più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può essere nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere…” (Zibaldone) E a suggello, un po’ ironico, un po’ divertito, vi trasmetto un dubbio o quesito di Giorgio Caproni: “ Imbrogliare le carte, / far perdere la partita./ È il compito del poeta?/ Lo scopo della sua vita?” (Le carte) Queste righe possono diventare fonte di utili sollecitazioni all’approfondimento delle ragioni dell’arte, tanto per chi scrive quanto per ogni lettore.

Gianfranco Scialino

 

 


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