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PREMIAZIONI

Le premiazioni si sono svolte sabato 19 ottobre 2013 con una cerimonia ufficiale, presso in galleria "Accademia città di Udine"via Anton Lazzaro Moro 58.( Piazzale Paolo Diacono) Udine. Molti sono stati i partecipanti all'evento che hanno potuto assistere alle premiazioni ed alla consegna dei diplomi di partecipazione.  

 

    

 

 

PRIMO CLASSIFICATO - sezione lingua italiana

Maria Cernigoi Maggio - VERSO LA CHIESA DI VAL ROSANDRA

 

SECONDO CLASSIFICATO - sezione lingua italiana

Bruno Lazzerotti - CASA DI RIPOSO

 

TERZO CLASSIFICATO - sezione lingua italiana

 Solda’ Giacomo -  LA PANCHINA DEI SOGNI

 

Poesie segnalate - sezione lingua italiana

Giovanni Bottaro - PER UNA PRESENZA IN BILICO

Egidio Babuin - LE GAMBE

Mara Penso - LA VECCHIAIA

 

PRIMO CLASSIFICATO - sezione lingua friulana

Federica Maurig - E TI VUEJ TANT BEN

 

Poesie segnalate - sezione lingua friulana

Gino Marco Pascolini - LA TÔ CJASE TAL SCÛR…

Adriano Nascimbeni - LISUTE

 

PRIMO CLASSIFICATO - sezione racconti

Gino Monti - LETTERA A ELSA

 

Racconti segnalati

Stefania Genero - DAI DIARI DI REBECCA CAMPANA, 18 GENNAIO 1834

 

PRIMO CLASSIFICATO - sezione giovani

Anna Astolfo - RICORDI

 

Poesie segnalate - sezione giovani

Ambra Gaudino - IO… TIPO MOZART

 

Premio speciale - partecipante più giovane

Alessia Calligaris - IL MIO CUGINETTO

 

 

Gli autori, con la partecipazione al premio, autorizzano l’“Accademia Città di Udine” alla pubblicazione della loro opera, rinunciando ai diritti d’autore.

 

 

 


 

VERSO LA CHIESA DI VAL ROSANDRA - Maria Cernigoi Maggio

Si spostano le pietre

all’avanzare di passi

affaticati sul ghiaione.

Ma l’anima risale più veloce

e come vela

al vento s’abbandona.

Là sulla grande cengia

c’è una chiesa,

che da sempre

resiste alle tempeste.

Come una madre apre

pietose braccia

a chi la scopre,

a chi di lei si fida.

Il porticato in legno,

oggi rifatto,

non riporta

i nomi di un’estate

incisi con tremore sulle travi.

Antichi nomi

che il vento custodisce

e li racconta

all’erba che accarezza,

a passi troppo stanchi per salire,

a chi ha chiuso per sempre

il suo sentiero,

a chi non sa sognare

che denaro,

a chi ha solo una stagione

per amare.

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LA PANCHINA DEI SOGNI - Solda’ Giacomo 

Mentre sul prato s’ allungano le ombre

taccion le fronde orfane di vento,

stasera il parco è regno del silenzio.

 

Con occhi assenti e colmi di tristezza

muta mi guarda la solitudine

dall’ altalena immobile nel vuoto.

 

Soltanto malinconia ristagna

nell’ aria che si impregna di ricordi

smarriti nei meandri del passato

 

mentre l’eco lontana di promesse

irrealizzate affiora nella mente

come fanno le stelle dalla notte.

 

Diventa allora il cielo un firmamento

di balbettanti lucciole lontane

che invitano a sognare ad occhi aperti

 

e a confidare i segreti nascosti

alla luna che indifferente ascolta

mentre, con nostalgia, parlo di Lei.

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CASA DI RIPOSO  - Bruno Lazzerotti

Quel modo di cogliere

la fissità del sole,

gli accenti dileguanti degli sguardi,

il volto disanimato,

e nelle scaglie acerbe del vespro

la fatica strascicata dei passi,

il respiro che pulsa rauco

sul sentiero di aghi

incupiti del pino,

rasente i cespugli d’oleandro,

i muri della casa di riposo.

Traspare la sera

con un silenzio che brucia

più in fondo delle stelle,

stringe ombra a ombra,

l’aria scura si fa macchia,

brivido a ricucire

la rotta della memoria,

sfrangiato e impalpabile

l’approdo fra il velo

e il fondale dei sogni.

Così rado, così lontano

lo stormo dei giorni

non ancora feriti,

non ancora stracciati nell’anima,

e questa cenere d’un tempo

fermo e muto

nell’anonimo sfarsi delle ore

come anticamera dell’inferno.

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PER UNA PRESENZA IN BILICO - Giovanni Bottaro

Menotto …..: nome

a trapassare il parabrezza:

una traccia che s’impenna

e scompare alla rotonda

 

siamo in transumanza: quel nome

su manifesto affumicato

incollato a un muro trasandato –

riaffiora – imboccando il ponte –

con un vólto alla memoria:

eri tu il collega amico della mia

compagna d’ufficio Maria?

 

sovente ti incontravo sull’angusto

piazzale della banca: tu più vecchio:

tre denti in meno nella bocca

 

tra di noi voglio ritenerti

in città preda dell’agosto

ora che – per poco –

lascio l’ansie nervose

di queste strade tristi:

voglio stare nel dubbio verso

i monti / crederti attivo e vivo

nell’ozio meridiano del tuo orto

 

(nell’incipiente autunno

ti dirò che qui già cadono

ombre scure dai colli

 

ma chissà se già dormi in eterno –

 

il Reno intrappola una foglia

e – dalle Piagge – raccoglierà

l’Arno in magra uno stecco:

 

e tutto finirà nel salso flutto)

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LE GAMBE - Egidio Babuin

Gambe accavallate

fasciate da calze,

aperte o incrociate,

leggermente divaricate,

allungate sotto il tavolo

per nascondersi in libertà.

Gambe saltellanti

al ritmo della musica,

incuranti di mostrarsi

nel passo della danza;

distese al sole,

nude e bianche

come zanne d’avorio.

Gambe da accarezzare

con ammirazione,

dove fermare lo sguardo

o spingere l’immaginazione,

spogliandole con dolcezza

di ogni casto pudore.

Lunghe canne

d’organo levigate

come colonne

di alabastro, attraversate

dal suono che mette

tutto quanto in vibrazione.

Gambe strette in un abbraccio,

ripiegate come un feto,

per difendersi dal desiderio.

Gambe in ginocchio,

per pregare.

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LA VECCHIAIA - Mara Penso 

Scenderà sorvolando albe e tramonti,

scenderà oltre la silenziosa sera

oscurando con le sue gelide ali

le rive fatate del mio vivere.

 

Trascinerà con sé foglie d’autunno

e un velo grigio a coprire i colori,

sarà ombra che avvolge lenta e sicura

ogni anfratto della mia anima stanca.

 

Ghermirà con i suoi feroci artigli

sogni, chimere, flebili illusioni

e diafane speranze frantumate.

 

Rimarranno briciole iridescenti

di ricordi che la furia del tempo

non ha trascinato nel buio abisso.

 

Ma in un altrove incantato, la mente

trattiene ancor vive immagini azzurre

e ancora volteggio fra fiordalisi,

libellula profumata di vita.

 

Vecchia Signora, annienta pure tutto …

nell’anima – lucenti – i miei vent’anni.

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E TI VUEJ TANT BEN - Federica Maurig

Čhjalimi,

ti prei, čhjalimi,

no stâ lâ vie.

No ti viôt…

 

Scoltimi,

ti prei, scoltimi,

stâ cun me.

No ti capiš…

 

Tabajmi,

dîmi alč,

no sta stâ zidìn.

No ài plui vôs…

 

Oremai no ti cognoš!

O sei jo,

vechje, strache, rabiôse,

ma simpri jo.

 

E tu cui setu?

O sei jo,

plui vechjo, plui strac, plui intrigôs,

ma simpri jo.

 

…E TI VUEJ TANT BEN…

 

Čhiaviestri!

Salvadie!

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LA TÔ CJASE TAL SCÛR… - Gino Marco Pascolini

 . A planc si slontane…" 

Cheste vilote, mi impensi, si cjantave

La joibe sere tornant dal jessi stâts

A cjase de morose, e il cûr zontave:

 

Benedet sei chel mûr

Che il gno ben ten parât…”

 

I mûrs jerin di clap, ducj sfrusignâts

E il scûr al jere penç: dome la lune

Tignive i siei voglons ben impiâts.

 

Nus someave di vê masse fortune:

Chel barconut cul canelon tal vâs…

Chel voli, chei cjavei, che piel di sbrume

 

Jenfri i mûrs fuarts, sigûrs par ogni câs:

Chei mûrs dulà che il nît varessin fat

Passant ducj i ains di vite in biele pâs.

 

Ma une gnot cence lune l'Orcolat,

Simpri di joibe,- al jere il sîs di Mai-

L'è rivât prin di nô, gagnint a mat..

 

E tant che un mat, al à tacât a dâi

Ju su chel mûr, che nissun plui al pare

E, fruçonât, al è par tiere e al vai

 

E voaltris frutis? E la vuestre vôs clare?

Daspò tancj ains che o ai passâts tal scûr

O sint inmò, la sô dolcece amare.

 

E la fortune? E la pâs dentri chel mûr?

Dut, e par simpri, tal scûr si è slontanât

E, dì par dì, un gnûf ricuart al mûr…

Ma parcè mai chest ricuart isal tornât?

Vuê ti ai viodude, par câs, cui tiei nevôts

Fûr di une vile cul mûr prefabricât…

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LISUTE - Adriano Nascimbeni 

Lizere 

sutile 

e va Lisute

tant che une sisile

cul so dolç rideç

il palit sen braurôs

i tetui ros

che a cimiin spiritôs

sot de cjamesute.

E bale Lisute

tant che un zovin cjavrûl 

te jerbe bagnade 

dal so piçul bearç.

I rais dal soreli 

a piturin di zâl 

la musute e i cjavei

 di Lisute. 

Lisute e somee 

l’agnel biont cha al bebee 

il passarin cuiet

che al talpine

tra i claps dal zardin

il mierli zentîl

che al bat d’unvier

al gno barcon

che al domande

cun buinegracie

un fruçon di pan.

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LETTERA A ELSA - Gino Monti

Imparai l’amore da te, Elsa, in quel luminoso pomeriggio d’un aprile di tanti anni fa. Avevi quindici anni e una bellezza che ai miei occhi di fanciullo non ancora undicenne appariva straordinaria e splendente. Eri di casa, venivi al mattino ad aiutare la mamma nelle faccende e mi portavi a scuola. Al pomeriggio colmavi il vuoto amaro che mi veniva dall’esser figlio unico. Quel giorno ce ne andammo, come altre volte, nella piccola stazione di Portovecchio, tra i giardinetti fioriti, nell’intenso profumo di treni e di oleandri. Come altre volte salimmo sulla cabina di manovra di un vagone in sosta, per partire verso viaggi immaginari. Ma quella volta mi strinsi forte a te e appoggiai la guancia sul tuo corpo. Ero emozionato e non riuscivo a dir niente, frastornato da quel tuo odore penetrante e imperioso di donna. Tu sentivi che una straordinaria novità mi si stava rivelando, allora prendesti la mia mano e la portasti al seno. “Ti piace?” mi chiedesti dopo alcuni istanti, ma la tua voce era diversa, meno squillante, più bassa, in una specie di tacita complicità. Non seppi rispondere, ma non tolsi la mano e ti strinsi più forte. Restammo così a lungo, in silenzio, ma il cuore palpitava, furiosamente, nell’angoscia di una sensazione imprevista e sconosciuta. Anche tu mi stringevi, con tenerezza, e mi chiedesti ancora : “Ti piace?”. Ma questa volta trovai la forza di rispondere, in un sussurro, di si. Poi dopo un attimo aggiunsi una cosa stupida, infondata, scaturita da un nebuloso processo mentale maturato in quegli attimi sconvolgenti. “Ti amo” dissi e tu ne ridesti, divertita. Nei mesi che ci separavano dalla fine della scuola uscimmo tutti i giorni, corremmo felici sulla spiaggia di Pontedoro, sugli erti pendii della Pinetina, giù lungo il sentiero che portava agli scogli sotto il castello. Oppur seduti sulla solita panchina in piazza Bovio, a guardar le navi nel canale e lo sfondo maestoso dell’Isola, come la gente chiama familiarmente l’Elba. Ogni attimo di quei pomeriggi era permeato da un’emozione latente, da una forte sensazione di felicità e di stordimento e di ansia. Al crepuscolo, una sera di maggio, dopo una lunga corsa nella Pinetina, ti adagiasti a terra sulla soffice coltre degli aghi di pino, con le ginocchia alzate, lasciando che la gonna ti ricadesse sul ventre. La luce radente del sole si frangeva fra gli alberi in un tripudio di colori e illuminava i tuoi capelli sparsi sul terreno. Ti giacqui vicino, posai la guancia sul tuo seno e lasciai che la mia mano sfiorasse il tuo corpo mentre, con gli occhi chiusi, precipitavo in uno spasimo senza fine. Poi ti baciai. Fu un bacio di bambino, ma lasciai le mie labbra impresse per un lungo istante, nel quale scoprii il profumo e il sapore intenso dell’amore. I giorni si consumarono in fretta, fino a quel sabato di giugno in cui mi accompagnasti, con la mamma, alla festa per l’ultimo giorno di scuola. Poi te ne andasti. Per sempre. Quel giorno di quell’anno 1940 fu anche l’ultimo di una stagione di felicità. La guerra prese entro breve il sopravvento e sconvolse le nostre esistenze. I luoghi che erano stati lo scenario della gioia e dell’incanto della vita divennero teatro di distruzione e morte. La fuga da Piombino fu per la mia famiglia inevitabile. Nella peregrinazione degli anni che seguirono mi ritrovai in luoghi che mi furono estranei e, dopo vicende di alterna fortuna, nell’immediato dopoguerra approdammo a Genova. La mia scelta di vita, dopo gli studi, fu la Marina dove mi attendeva un’esistenza facile, intrigante, disimpegnata, certamente congeniale. Un’esistenza in cui non ero mai solo e sempre altrove, gratificato dall’avanzamento nei gradi e nel guadagno. Avevo 34 anni quel mattino d’inverno del ‘63, quando la fregata su cui ero imbarcato prese l’ormeggio a Genova. Giunsi da mia madre con un taxi, su per la salita di Santa Maria Sanità, e fra le cose che essa mi disse una mi colse di sorpresa, impreparato, incapace di capire cosa provavo, capace solo di capire che ero in ansia: “Ho incontrato per caso indovina chi. Elsa! Viene questo pomeriggio a trovarmi. Ricordi Elsa?” Ricordare Elsa! Come avrei potuto dimenticare l’unica creatura che avevo realmente amato, l’unica donna di cui avevo conservato gelosamente nella memoria ogni frase, ogni sospiro, ogni sensazione, che più d’ogni altra tenevo nella mia mente come riferimento della vera, entusiasmante femminilità, fatta di istinto, sensualità, dolcezza, semplicità. Come avrei potuto dimenticare il tuo volto rivolto al cielo e i capelli bruni sparsi sulla coltre d’aghi di pino, il tuo sapore di donna, il tuo grido represso quando ti accarezzavo, che mi rivelava, fanciullo, il dramma dell’amore e il suo inquietante mistero. Come avrei potuto dimenticare quelle ore passate assieme, seduti l’uno accanto all’altra, a parlare del futuro, ad immaginare come sarebbe stato domani, a chiederci non se ma come saremmo stati felici nella vita che ci attendeva. Ti rividi quel pomeriggio quando venisti a casa col marito e il figlio. Abitavi a Savona, dove lui lavorava nello stabilimento siderurgico. Brancolai nei tuoi occhi per ritrovare un po’ della luce di quel lontano passato, un po’ di quell’anima che aveva illuminato il fanciullo di allora. E trovai solo due occhi ancor grandi, ma vinti, assuefatti alle ferree regole dell’esistenza, domati dalle inflessibili esigenze dell’oggi. Dov’eran fuggiti, chi ci aveva rubato quel futuro, quel domani, quella felicità, quel cielo da guardare ad occhi aperti, quegli abbandoni sulla coltre profumata della pineta, quell’amore vero ma irreale, quei sogni confusi con certezze. Eri una donna vinta, arresa ai bisogni della casa, delle spese, del bilancio, compressa tra le regole di una vita che non concedeva spazio ai sogni dell’adolescenza, prigioniera di una realtà che ti voleva umile e sottomessa, in quieta attesa di un futuro senza futuro. Ed io chi ero, mi chiesi smarrito, se non anch’io prigioniero della vita che mi ero scelta, inerte a guardare gli anni che passavano, senza scosse, senza stimoli, senza una donna che sembrasse degna d’esser trattenuta, senza un domani che valesse la pena d’essere atteso con emozione, come in quegli anni lontani, quando al crepuscolo già vivevo nel pensiero del nuovo giorno. Le ore di quel pomeriggio a casa di mia madre, quando nei conversari si snodava la realtà delle nostre vite cosi diverse ma egualmente derubate della felicità vera, mi passarono sopra come macigni lasciandomi irragionevolmente timido, reticente, laconico. Poi arrivò l’ora del congedo, e quando ti aiutai a indossare il soprabito per un attimo fummo soli. Tu mi tirasti a te e mi chiedesti piano: “Ti ricordi?”. A me parve come se, come allora, mi avessi detto “Ti piace?”, e per una volta ancora trovai la forza di sussurrarti di sì. Il destino fu avaro di nuovi incontri o forse non volle, nei suoi disegni, privarci della perla che abbiamo deposto nello scrigno dei ricordi. Non so nemmeno dove inviare questa lettera, che ripiego e depongo anch’essa in quello scrigno da cui attingo, nel crepuscolo della vita, la gioia di una lacrima d’intima dolce melanconia.

 

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DAI DIARI DI REBECCA CAMPANA, 18 GENNAIO 1834 - Stefania Genero

(tradotto dal tedesco)

Mi sembra quasi di veder splendere su queste pagine una luce antica che ha lo stesso odore delle memorie di casa. L’inizio del secolo. La mia giovinezza.

Rammento la mia camera: il letto con la testiera d’ottone lucido addossata alla parete, la finestra spalancata sul tramonto, la tenda di lino color bianco sporco ricamata di roselline pervinca gonfiata appena dal vento leggero, il profumo di grano e gelsomino, e il grande armadio di radica accanto alla finestra, e lo specchio sulla parete opposta. Rammento lo scricchiolio delle assi di legno sotto i miei passi, e la consistenza del tappeto sulla pelle nuda.

Rammento mio fratello Fabrizio, lo vedo affacciarsi dal vano della porta nella sua fiammante carmagnola rosso scuro, nelle sue braghe beige, colla cravatta slacciata e il cappello stretto in mano.

Rivedo il suo volto, i suoi occhi verdi come la parte più nascosta del bosco dopo un acquazzone, la gobba pronunciata del suo naso, le labbra carnose ripiegate in una posa languida e malinconica, le ciocche scure accese di riflessi di fiamma. Rivedo le sue mani, nodose, cesellate di nervi e vene.

Ricordo i nostri divertimenti infantili, le corse colla slitta sulla neve fresca, i lunghi pomeriggi trascorsi in biblioteca con il nostro precettore, le lezioni e gli esami impartitici da nostro padre. Gli avvisi e i proclami della municipalità. I soldati e le loro sgargianti divise blu. Ricordo quando conoscemmo Etienne Clochet, che a me pareva vecchissimo nonostante avesse appena trent’anni. La concitazione di Campoformio. Nostro padre non era mai in casa, assorbito da faccende per noi divertenti e incomprensibili come esotici balocchi. Furono anni così vivi, così appassionati! Io sognavo di sposare un soldato; le marce mi piacevano, i tamburi mi esaltavano.

Ricordo Maria, ricordo il suo profumo. Violetta, forse, ma con un retrogusto appassito, decadente. Nonostante ci separassero più di dieci anni divenimmo subito molto amiche. Era pallida a causa di una malattia, bionda, con due occhi azzurri capaci di lampeggiare, tempestare e scintillare con una furia minacciosa. La ricordo seduta in un angolo buio della villa, sprofondata nella vecchia poltrona di velluto nero decorata degli orditi violacei dell’abito, e il volto e il collo bianchi come una macchia di luce. Amava i romanzi moderni, di quelli in dodicesimo venduti dagli ambulanti che qualcuno definirebbe “per cameriere”. Lei non era una cameriera, no, aveva un portamento imperioso e altero che io, ragazzina cresciuta in simbiosi con un fratello maschio, un poco invidiavo.

Diciotto anni. Allora sì che ero giacobina! Fabrizio si era arruolato nonostante il veto di nostro padre e trascorreva l’età più scapestrata nel più scapestrato dei modi. Quante pene dobbiamo aver causato ai nostri genitori!

Ricordo la nostra vita un poco bohémienne e molto ribelle, i suoi amici ricchi, affascinanti e scontenti, i ricevimenti, le sontuosità. Molti tramonti, molto rococò. Divanetti laccati in oro e ricoperti di broccati. Le mani di mio fratello che mi stringono il vestito più di quanto avesse voluto farlo Gerberta, la brava cameriera che cercava di salvarci dalla perdizione in cui stavamo lietamente precipitando. Un vestito molto bello, che mi faceva sentire stranamente attraente, finalmente adulta.

Come mi inebriavo della mia vanità, e di quell’assaggio di ricchezza che aveva mutato la mia vita in un romanzo! Come mi inebriavo del mio riflesso, fra le risate delle mie amiche e gli sguardi benevoli dei compari di mio fratello. I miei gioielli – ah no, non erano quelli di Cordelia! – luccicavano come astri in mezzo a tutto quel fumo, in mezzo a quella penombra carica di promesse, carica di proibito. Così ricca! Era un riflesso diverso da quello del piccolo specchio di camera mia, il riflesso non di una ragazzina ma di una donna.

Ai francesi piaceva sentirmi parlare la loro lingua, dicevano “Citoyenne, vous etes faite pour la France”. Com’ero sciocca! Nulla eccitava i miei giorni acerbi quanto la trasgressione e le lusinghe. Per non parlare del lusso, dell’agio sfrenato che mai prima di allora mi era stato concesso. Fabrizio era diverso. Lui si stancò ben presto della nostra vita traviata, si stancò ben presto della mondanità, delle frivolezze, degli eccessi.

A me i francesi sembravano così raffinati, così diversi dal mondo che conoscevo. Ogni dono che ricevevo, ogni bicchiere di vino, ogni alcova mi rendevano fiera. Io trionfavo su un mondo che non sentivo più come mio. Non volevo che uccidere per sempre il mio vecchio io, la stupida fanciulletta che passava ore intere a fissare devota il crocifisso, che amava l’antica statua della Vergine, conservata nella chiesetta del paese, come una madre. Che inorridiva al pensiero delle fiamme dell’Inferno al punto di pregare ogni giorno per la salvezza dei suoi cari. Che mai si separava dal rosario. Che disprezzava quasi l’esistenza, pregustando la beatitudine celeste.

Uno dei miei primi ricordi è proprio una messa, credo quella in suffragio di Luigi XVI. É tutto molto confuso – confuso dal tempo – ma rammento chiaramente l’odore dell’incenso e le voci cupe del coro, cui si univa il gracchiare delle vecchie. Ecco che tutto si fa di nuovo angoscioso e squallido. Che cos’è un titolo quando sei di poco superiore alla plebaglia?

Per tutta l’infanzia non fecero che ripeterci che Robespierre era il diavolo. Quanto meno divertente sarebbe stato divenire giacobini senza quel monito! Non mi importava niente della caduta della Repubblica, avvenuta quando eravamo molto piccoli, anzi me ne compiacevo. Credevo che tutto il vecchio, la feudalità quanto il cattolicesimo, il leone di San Marco quanto il crocifisso, dovesse essere abbattuto senza pietà. Difficilmente avrei potuto abbracciare l’ateismo più pienamente, se fossi stata prima appena meno devota. Odiavo i banchi di legno tarlato e la penombra di quella piccola, pittoresca chiesetta, costruita da pezzenti per permettere ad altri pezzenti di adorare un pezzente! Odiavo i canti berciati, le loro stupide parole, le loro melodie stucchevoli e prive di qualsiasi gusto; odiavo lo sgranare ritmico dei rosari, lo svolgersi insensato delle Ave Marie. Soprattutto odiavo le storielle edificanti, il Vangelo riletto alla luce di un progressismo all’acqua di rose, di un conformismo putrido, di un perbenismo, di un’ipocrisia che si trovano solo in provincia. Odiavo il terrore sacro che in me suscitavano quelle statuine dipinte. Odiavo lei, la Madonnina secentesca circondata di putti, colle guance dipinte e con in capo una corona scrostata a lasciare intravedere il putrido legno sottostante.

Odiavo le sue Grazie e le sue apparizioni perché mi terrorizzavano. Lei mi terrorizzava. Ci esortavano a parlarle come a una madre, a un’avvocata, quando a me sembrava l’ombra oscura della vendicatrice, implacabile Morte. La punitrice. O forse solo il rischio di somigliare a mia madre. Giacinta Celeste, titolata sì, ma di quei titoli posticci dispensati dalla Serenissima per far quattrini – vero sollucchero dei borghesucci arricchiti - , sempre coperta di nero, sempre a implorare santi e madonne, sempre a magnificare i sacrosanti Asburgo e i martiri Borbone. Forse la rammento vestita di nero perché fece voto di non indossare più alcun colore dalla morte del povero, innocente Louis le dernier e della di lui virtuosissima consorte, Mme Déficit. Qualcuno osa oggi esaltarla, io non dimenticherò mai gli aneddoti riferitimi da Jean. Quanti anni sono passati! Da quanto tempo non richiamavo quel nome alla memoria! Jean. Aveva una voce così calda e avvolgente, e al tempo stesso così imperiosa! Non avrebbe potuto passare inosservato, neppure se l’avesse voluto con tutto se stesso. Quale brivido provai quando udii i suoi passi rimbombare sul marmo. Io sola vi prestai caso, io sola. Che sensazione bizzarra! Ricordo ancora come fosse accaduto ieri. Ogni dettaglio. La musica, un minuetto, eseguito con vivacità e leggerezza. Le luci squillanti dei riflessi lucidi degli

specchi. La brezza che penetrava dalla porta socchiusa sul terrazzo. Fabrizio in un angolo, il più lontano possibile dall’orchestra, intento a discutere a bassa voce con un amico che oggi, se non erro, è un medico piuttosto facoltoso.

Io ero arrivata da poco assieme a Tommaso e Marianna, mentre Silvia già ci attendeva. Quella sera Emilia non c’era. L’Europa era coinvolta in una sanguinosissima guerra, le sorti del mondo erano sul piatto eppure io non rammento che balli, feste, serate a teatro, sperpero e libertà. Libertà da tutto e tutti, dalla famiglia, dalla tradizione, dalla rispettabilità. Vivevo in un magnifico romanzo, o in un sogno che oggi mi sembra ancora più irreale. O forse ero io ad esserlo. Giocavo alla donna di mondo, mi atteggiavo a civetta, cercavo nuove sensazioni, cercavo piacere, cercavo vita. Di notte mi accendevo; non attendevo che il calare delle tenebre per mettermi in ghingheri e lasciarmi trasportare, abbandonandomi alla sensazione e alla volontà, all’arbitrio più puro. Mi trasformavo completamente, il mio sguardo mutava, la mia anima mutava. Ero davvero io la giovane riflessa nella sontuosa cornice dorata, era davvero mio quello sguardo arrogante, erano davvero miei quei boccoli degni di una puttana shakespeariana?

A vent’anni ero una fanciulla traviata.

A vent’anni sperimentai per la prima volta l’odore nauseabondo del sangue. M’invase. Il sangue di Jean.

Lo amavo? Non lo so. Non sono ancora riuscita a interpretare i sentimenti di quella gelida mattina. Cosa provai quando scesi dalla carrozza, quando mi resi conto che i miei sospetti erano perfettamente fondati? Cosa provai quando udii il cozzare delle lame? Faceva molto freddo, il boschetto era invaso da una nebbia livida. Avevo davvero sperato di averli fatti desistere dal loro intento? Come potei essere così ingenua? Come potei davvero ritenere che Fabrizio avrebbe perdonato il sarcasmo dell’altro, che avrebbe ceduto alle preghiere di una sorella che ne era divenuta l’amante? Tutti lo sapevano, tutti sapevano che trascorrevo le mie notti con il tenente. L’invasa e l’invasore. Quando eravamo divenuti tali? Quando avevamo smesso di essere solo Rebecca e Jean? Possibile che avessi completamente dimenticato la Rivoluzione, Napoleone, la caduta della Repubblica? Possibile che avessi dimenticato il diavolo Robespierre? Possibile che per me contassero solo i gioielli, il vino e la voluttà? Ah, i suoi baci mi ardono ancora sulla pelle! E’ tutto così irreale. La sua postura da dominatore, la sua divisa impeccabile, gli stivali lucidi, le medaglie, le ciocche bionde e curate, le basette tali e quali a quelle del suo beniamino, generale e imperatore, la conversazione brillante, la prontezza di spirito, gli aneddoti di guerra. Mi invaghii subito di lui, così marziale, così straordinariamente virile. Lui aveva qualcosa che alla mia debole natura di donna mancava, un vigore capace esso solo di curare il mio languore, la mia decadenza.

Volevo essere soggiogata, invasa, prostrata, invasata da quel vigore. Volevo dimenticare me stessa nella tempesta delle sue labbra, soffocare me stessa nella stretta ferrea delle sue braccia da divinità olimpica, affogare me stessa, assordare me stessa, accecare me stessa, annientare me stessa nell’assalto fulmineo di un amplesso. Lo amavo? Non lo so. Passeggiammo a lungo, a lungo discorremmo alla brezza, sulla terrazza, al bagliore tisico della luna. Mi narrò delle sue imprese,

della vita messa a rischio per la Patria, dell’esaltazione delle battaglie, delle vittorie, dello sventolare mistico del tricolore. Io non capivo. Cosa poteva mai avere un drappo colorato, perché mai avrebbe dovuto spingere un uomo a combattere fino alla morte?! Lui sorrise bonario, gli occhi ancora perduti nella contemplazione di scene e oggetti scorti come in una apparizione sacra. Non oggetti, no. Reliquie. “Voi italiani siete così abituati a essere schiavi da aver dimenticato cosa significhi amare ed essere liberi.” Essere liberi? Per me quella era la libertà. Essere liberi, mi spiegò, significa amare follemente la Patria, farsi tutt’uno con il Popolo, seguire la Ragione, cercare non la felicità personale, ma il bene comune.

Il Popolo?! Tornare a ciò che odiavo, all’ignoranza, allo squallore, al fanatismo, alle vecchie, ai rosari, alle panche tarlate, alla puzza di fango, sudore e letame? Questa era la Rivoluzione da noi tanto magnificata? Questo il futuro della nostra generazione? Per questo mio fratello si batteva? Fui villana e sgarbata, ma lui non si scompose minimamente. Anzi, sembrava che la mia indignazione lo divertisse. “Così voi sareste l’amie du peuple? Dovrebbero piuttosto chiamarvi Charlotte Corday!” Ignoravo chi fosse costei, sapevo solamente che aveva fama di reazionaria, per cui finsi di essere rimasta mortalmente offesa. Mi levai dalla panchina e feci per andarmene. Il magnifico mesmerista mi afferrò il polso, senza smettere di ridere, mi fece sedere di nuovo e mi spiegò che con “popolo” non intendeva affatto il popolino, i sudditi dei feudatari come mio padre o ancor peggio degli imperatori come quello cui mia madre era devota, bensì tutti, tutti i cittadini di una nazione, senza distinzione di nascita o professione. Non ero convinta. Il popolo è ignorante, volgare e stupido, deve essere guidato! In tutta risposta mi narrò l’esperimento compiuto decenni prima dal padre del suo secondo - un ometto schivo che avevo intravisto diverse volte ma con il quale mai mi era interessato conversare - : aristocratico anch’egli, ma amico del popolo, si era adoperato affinchéi suoi lavoratori e soggetti apprendessero a leggere e scrivere. Questa volta fui io a ridere: non serve certo una rivoluzione per istruire un villico! Non pensasse, poi, che il Friuli fosse tutto in mano agli “aristocrates”! Per questo avevano venduto la Repubblica all’Austria? Loro avevano ghigliottinato un re per darsi una repubblica, poi avevano abbattuto una repubblica antica e gloriosa per consegnarla a un impero, per farne infine un’altra repubblica!

Avremmo discusso ancora a lungo se solo Marianna non fosse venuta a chiamarmi. Non proseguimmo mai.

Tommaso stava eseguendo un pezzo di Beethoven al pianoforte, noi l’ascoltavamo rapiti, tutto sembrava normale. Ero così frivolamente felice! Non vedevo l’ora di riprendere a discorrere da sola con Jean, ero circondata dai miei amici più cari, inebriata dalla musica, dalla pura bellezza, dalla struggente malinconia del Notturno. Un attimo perfetto, sospeso. In me scorrevano dolci ricordi e care speranze. Tutto il futuro pareva sorgermi innanzi come un’alba, mentre assorta posavo gli occhi su volti noti e sconosciuti, su arredi, su forme aggraziate e suadenti, sulla luna piena che faceva capolino dalla porta aperta sul balcone. Sembrava così lontana! Così indifferente! Mi balzarono alla mente alcuni versi di Fabrizio:”Che guardi oziosa luna/ lume malato che violenti la notte/ coi tuoi pallidi raggi/ di morte?” Mi strinsi nello scialle. Fu allora che udimmo le grida. Tommaso staccò le dita dalla tastiera e rimase a fissarmi. Le voci erano quelle, inconfondibili, di Fabrizio e Jean. “Voi italiani siete un popolo di castrati!” Mi si gelò il sangue. Erano parole pesanti, troppo pesanti.

Corremmo nel salone. Troppo tardi. Mio fratello aveva svuotato il suo bicchiere contro il volto di Jean. Questi era furente. Senza pensare mi gettai fra loro, implorai per la riappacificazione, mi appellai al loro amore di fratello e amante. Mi lasciai cadere ai piedi di entrambi. Mi umiliai. Maria scivolò accanto a mio fratello, gli posò appena la mano sulla spalla e la tese poi a me per aiutarmi a levarmi in piedi. Provavo una immensa vergogna. Non per il mio appello. Accanto a lei il disordine della mia condotta appariva ancora più lampante. Lei era dignitosa, elegante, severa come la fiera polena di una nave, come un’antica romana. Pallida e silenziosa, fasciata nel suo panneggio candido, le ciocche raccolte senza fronzoli, i movimenti lenti e netti, offriva un palese contrasto colla sgualdrinella che giaceva ai suoi piedi come una Maddalena incapace di pentirsi. Mi gettai al collo di Fabrizio. Era rigido come un morto, evitava ostinatamente il mio sguardo e lasciava che belletto e lacrime gli macchiassero la camicia immacolata. Acconsentì a ritirare la sfida, a patto che Jean ritirasse le sue infamanti accuse. L’altro ufficiale, Laiclos se ben rammento, il collaboratore più fidato del tenente, l’omino schivo con cui non avevo mai pensato valesse la pena conversare, si fece avanti a sua volta. “Non potete accogliere la sua richiesta di soddisfazione. Vi è inferiore in grado.” Jean non oppose resistenza.

Perché non vollero ascoltare? Perché si affrontarono ugualmente? Quando la luna sorse di nuovo Jean era morto, mio fratello esule. Il padre di Maria, coraggioso come pochi, lo fece travestire da valletto e lo portò seco a Villacco, al sicuro oltre confine.

Ebbi appena il tempo di vedere la vita fuggire dai suoi occhi, l’esistenza spegnersi come una fiammella al soffio della brezza. Gli strinsi la mano, mentre il suo petto fioriva di una mostruosa orchidea purpurea. Il duello avrebbe dovuto essere e fu all’ultimo sangue. Come la disfida di Barletta. Riuscii a pensare solo una cosa: “La mort est un sommeil éternel.” Me l’aveva insegnato lui. Stringevo la mano di un cadavere. Di una carcassa. Nessun Paradiso, nessun Inferno, nessun Dio. La nebbia gelida rendeva il paesaggio spettrale e il mio cuore ancora più gelido. Non piansi. Mi limitai ad abbassargli le palpebre. La mia mano non tremava, il mio piede non vacillò una sola volta. Solo stanchezza. Indossavo ancora, sotto il mantello bordato di pelliccia, l’abito della notte prima, sguaiato e sfarzoso, anche se l’umidità aveva raddrizzato i boccoli. Fabrizio rimaneva muto. Amavo Jean? Io non lo so. Lui mi amava? Ormai non ha più importanza.

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RICORDI - Anna Astolfo

 

Come vecchie pagine sottili,

custodi di secchi petali ormai lontani;

 come stanchi manichini,

 polverosi guardiani di epoche passate.

 

Sono nascosti davanti ai nostri occhi,

sono soli nella moltitudine,

hanno già vissuto il loro momento.

 

Come foglie ingiallite,

figlie morte di cose ancora vive;

come oggetti arrugginiti,

inutili ricordi di vite dimenticate.

 

Sono sepolti sotto i nostri pensieri,

sono distorti dai sogni notturni,

hanno già visto il nostro cuore.

 

Alcuni se ne andranno tranquilli,

dopo aver molto aspettato.

 

Alcuni mancano da sempre,

lì c’è solo il vuoto.

 

Altri ti perseguiteranno per l’ eternità,

ti accompagnano nella vita,

buoni o cattivi, non importa.

 

Aspettano di essere ripescati

aspettano di essere notati,

di essere utili.

 

Tu lasciali fare,

lascia che dormano tranquilli,

lascia che non vengano a tormentare

anche i ricordi che di oggi resteranno.

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IO… TIPO MOZART - Ambra Gaudino

Io mi immagino, da grande, famosa e pianista.

Tipo Mozart, che ha sentito la musica a un concerto

e appena tornato a casa l’ha fatta identica.

 

Non so se ci riuscirò ma vorrei provare.

Mi piacerebbe suonare nei teatri di Parigi,

quelli sì che son giganti.

 

E le persone sarebbero tutte eleganti.

Le signore avrebbero le scarpe rosse

e i signori le teste grosse

con i cappelli

che dondolano come i campanelli.

Io, a vederli, mi metterei a ridere,

come faccio adesso che sono piccola

e ho i dentoni a pianoforte

che mi piacciono tanto

perché i buchi sono i diesis

e suonano allegri come me.

 

Ambra Gaudino Codroipo

Nata 14 gennaio 2005

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IL MIO CUGINETTO - Alessia Calligaris

Io ho un cuginetto molto piccolino

che ha ancora il pannolino,

sembra che da grande voglia fare il cantante

teatrale,

Nicolas si chiama,

qualche volta mi fa arrabbiare

ma senza di lui non si può stare,

é un tenerone anche se é birbone.

Gli mando un bacione,

ciao tenerone!!

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